Il terremoto del 13 gennaio 1915

Ersilia Rezza

Ersilia Rezza

Rosaria Viola

Rosaria Viola

Il 13 gennaio del 1915, alle ore 7,45, una serie impressionante di violente scosse telluriche si abbatté improvvisamente sulla Marsica, sull’Aquilano e sulla Valle del Liri. Gravissimi i danni materiali e numerosissime (quasi 30.000) le vittime. Interi paesi come Sora ed Avezzano vennero rasi al suolo.

“Tutto stritolavasi e cadeva travolgendo torri e chiese in un vortice infernale, case e palazzi cadevano: sembrava vosse sprofondare la terra”. Così un attento cronista sorano ricostruiva drammaticamente quel triste e rigido mattino invernale.

L’inclemenza del tempo poi, con pioggia battente e neve, concorse ad aggravare sensibilmente il desolante quadro di distruzione e di morte, impedendo o rallentando, le prime frenetiche attività di soccorso.

Tale sciagura che raggiunse toni davvero apocalittici, restò ben impressa nella mente dei nostri antenati che, ancora oggi, a distanza di 80 anni, i più vecchi ricordano pefettamente episodi connessi a quell’infausto giorno.

In tal senso notevole è una ballata popolare, nata fra le genti delle città sconvolte dal sisma, che abbiamo potuto ricostruire attraverso le parole, non sempre facilmente comprensibili, di due arzille vecchiette di Caprile, più che ottantenni ed oggi purtroppo scomparse, Rezza Ersilia e Viola Rosaria, che ricordavano lucidamente quei tristi momenti.

La canzone, suddivisa in quattro sestine e probabilmente mancante della parte finale, si riferisce proprio al terremoto del 13 gennaio del 1915, come si evince chiaramente dal testo.

O misera Avezzano,
con tutti i tuoi dintorni,
il popolo italiano
vi piange da quel giorno.
Era graziosa la tua città
era maestra di civiltà.

A Sora un sacerdote
stava comunicando
cinque o sei devote,
che stavano pregando;
cascò la chiesa, tutto crollò,
con l’ostia in mano egli restò.

Ad una bambinella,
che era nata muta,
gli venne la favella
per la paura avuta.
Aiuto, o mamma, ella gridò;
mamma era morta e lei si salvò.

Duecento giovinetti
sepolti vivi a scuola
gridavan proveretti
aiuto a squarciagola;
cento lamenti di qua e di là
a chi li sente, fanno pietà.

Siffatta ballata, triste e malinconica, si inserì così profondamente nella vita e nelle tradizioni popolari delle nostre zone, da essere intonata, fino a poco tempo fa, dai contadini che, nella coltivazione dei campi o nella raccolta delle olive, proprio con la mesta nenia, volevano rendere doveroso omaggio alle vittime della grave sciagura.

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Andrea Viola